L’obiettivo del regime, ormai fare del fronte antioccidentale, è far ritirare le truppe di Washington dallo scacchiere siro-iracheno. La possibile influenza sulle presidenziali di novembre
di Guido Olimpio
Un attacco contro un simbolo. Un’operazione parte della campagna condotta dalle milizie alleate dell’Iran sulle installazioni americane in Medio Oriente. Una saldatura con quanto avviene in Mar Rosso.
All’inizio c’erano poche decine di membri delle Special Forces, «un avamposto su Marte», era la definizione di quanti avevano frequentato la zona. Successivamente il Pentagono ha allargato la postazione sui due lati della frontiera, sono migliorate le difese ed è cresciuto il peso di alcune centinaia di militari. Un incremento determinato dal proliferare delle insidie. Prima gli jihadisti, poi le truppe di Assad, infine i militanti sciiti hanno elevato i siti a target primari di droni-kamikaze, razzi, incursioni. C’è stata un’alternanza di gesti limitati e manovre articolate, con il ricorso ad ogni arma del loro arsenale. Iniziative seguite dalla risposta statunitense su postazioni dei combattenti, specie nel settore settentrionale di Abu Kamal.
Dopo l’inizio del conflitto Israele-Hamas, Al Tanf, così come le altre posizioni occupate dagli Usa tra Iraq e Siria, sono diventate punti di frizione. Hangar e «campi» facili da bersagliare per i militanti con i sistemi a medio e lungo raggio: non devono rischiare uomini, possono regolare il fuoco dosando i mezzi impiegati, partecipano alla mobilitazione contro lo Stato ebraico e gli Stati Uniti. I numeri degli strike variano a seconda delle fonti, tra i 150 e i 180 episodi, quasi sempre conclusisi con conseguenze non troppe serie per il personale americano. Quadro ora mutato in modo drammatico con l’annuncio dei tre morti e la probabile rappresaglia, al momento opportuno, della Casa Bianca.
Joe Biden, come per la sfida degli Houthi, «deve» reagire ma è consapevole che le ritorsioni hanno effetti scarsi. L’unico risultato è quello di una guerra d’attrito, sviluppata «per pezzi», lungo un arco geografico esteso. Che assorbe energie, distoglie da altre grane, moltiplica i teatri mentre l’Occidente deve pensare anche all’Ucraina. Gli avversari locali di Washington, invece, sono più agili. Si presentano come resistenti, raccolgono consensi, usano la questione palestinese come schermo, agiscono per conto proprio e «lavorano» al fianco di Teheran, acquisiscono capacità belliche. La sorpresa di Hamas del 7 ottobre e le scorrerie marittime degli yemeniti rappresentano delle lezioni severe, anche perché i due movimenti hanno portato il colpo dopo anni di preparazione.
L’Iran e i suoi «fedeli» manovrano per spingere gli Usa a ritirarsi dallo scacchiere siro-iracheno, scenari al centro di contatti riservati. Nei giorni scorsi da Bagdad sono rimbalzate notizie su discussioni in vista di un possibile calendario per la partenza. Siamo su un campo minato, instabile. La fretta con cui Amman ha negato che lo strike sia avvenuto nel suo territorio evidenzia le paure del regno, sempre esposto a possibili ripercussioni interne anche se di recente i suoi caccia hanno bombardato trafficanti di droga siriani sospettati di godere di protezioni ufficiali a Damasco.
Sono molte le incognite. Le provocazioni — azzarda qualche esperto — potrebbero danneggiare i piani dell’Iran, anche se ha conquistato una doppia investitura: faro dell’Asse antiamericano e protagonista in grado di incidere sull’intera regione. In prospettiva n on va dimenticato l’avvicinarsi della corsa presidenziale negli Stati Uniti, periodo suscettibile di essere influenzato da fattori esterni. Una presa d’ostaggi, un attentato grave ad un’ambasciata, qualsiasi cosa possa turbare l’elettore. E senza dimenticare che ogni conflitto non è mai bianco o nero.
fonte: Corriere.it
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