La fiction su Lidia Poët si propone di rileggere in chiave “light procedural”, la lunga battaglia della prima avvocata italiana, interpretata da Matilda De Angelis
Francesca Spasiano
«L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine». Novembre 1883, i giudici della Corte d’Appello di Torino sono chiari: Lidia Poët, prima avvocata del Regno d’Italia iscritta all’Albo in quello stesso anno, deve lasciare l’Ordine. Perché, spiega la Corte, «sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste».
Un “rischio” paventato da uomini, con parole scritte da uomini, quali erano i componenti della Corte. Poco male. La tenace Lidia Poët non si lascia scalfire. Privata del “titolo”, continua a svolgere la professione nello studio legale del fratello per i 37 anni successivi alla sua cancellazione dall’Albo degli avvocati di Torino. Per esservi infine riammessa nel 1920 dopo una lunga battaglia. Quella di Poët è una storia di straordinaria determinazione, un esempio di dedizione per chiunque indossi la toga. Che ora balza anche all’occhio del grande pubblico con una serie tv firmata Netflix.
Scritta da Guido Iuculano e Davide Orsini, diretta da Matteo Rovere e Letizia Lamartire (produzione Groenlandia), la fiction si propone di rileggere in chiave “light procedural” la vicenda reale di Poët, nei cui panni vedremo l’attrice Matilda De Angelis. Le riprese sono iniziate a Torino il 20 settembre e per ora le indiscrezioni sono poche: si parte dalla sentenza della Corte d’Appello per raccontare gli anni in cui Poët, decisa a ribaltare quel pronunciamento, si dedica alla professione sfidando pregiudizi ed ostacoli di ogni sorta. Al suo fianco leggiamo nella sinossi – c’è Jacopo, «un misterioso giornalista e cognato di Lidia, che le passa informazioni e la guida nei mondi nascosti di una Torino magniloquente».
Spulciando tra archivi e quotidiani dell’epoca, scopriamo che in quegli anni Poët si dedica in particolare alla tutela dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Il divieto di patrocinare non le impedisce di rimanere a lavorare nello studio legale del fratello Enrico, che le aveva trasmesso l’amore per la professione. Dopo la sua rimozione dall’Albo, Poët partecipa al primo Congresso Penitenziario Internazionale a Roma e nel 1890 venne invitata come delegata a San Pietroburgo, alla quarta edizione del Congresso. Il suo impegno non si arresta neanche allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando lascia lo studio e diventa volontaria della Croce Rossa.
Di questa attività senza sosta ci parla anche l’avvocata Simona Grabbi, presidente dell’Ordine di Torino che a Poët ha intitolato l’area giochi nei giardini del Palazzo di Giustizia con un cippo commemorativo scoperto lo scorso luglio. Il cippo, spiega Grabbi, è un «simbolo per le battaglie di genere» posto a «beneficio dei tanti cittadini che non conoscono questa storia». Una storia che inizia nel 1881, quando Poët si laurea in giurisprudenza all’Università di Torino con una tesi sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne – «una tesi profetica», fa notare Grabbi. Per due anni svolge la pratica forense per abilitarsi alla professione, quindi supera brillantemente l’esame di procuratore legale. La sua richiesta di iscrizione all’Ordine, a quel punto, non avrebbe dovuto stupire nessuno: è conforme alla legge. Che non prevede nessun divieto esplicito per le donne di presentare domanda né di esercitare la professione. Ma la cultura, quella con cui Poët deve fare i conti, è un altro affare.
Le donne nel Regno d’Italia non hanno diritto di voto, avvicinarsi alla professione è inimmaginabile. Così il chiacchiericcio si rincorre nei corridoi dei tribunali sabaudi. Soprattutto quando, nel 1883, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati accetta la sua iscrizione con otto voti a favore e quattro contrari. Un vero successo, se si considera il dibattito che la vicenda aveva suscitato. A mettersi di traverso, a quel punto, è l’allora Procuratore Generale del Re che decide di denunciare questa “anomalia” alla Corte d’Appello. Che quindi provvede a cancellarla dall’Ordine, prestando l’orecchio allo “scandalo”. «Non occorre nemmeno di accennare – scrivono i giudici – al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra».
E ancora: «Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate». Ebbene, “i legislatori” se ne occupano, ma soltanto nel 1919 con l’approvazione della legge Sacchi che autorizza ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici. Così arriviamo al 1920, quando Poët – ormai 65enne – può ripresentare la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati e indossare finalmente la toga.
fonte: IL DUBBIO
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