Il rito sarà celebrato nella cattedrale di Agrigento e presieduto dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Ucciso il 21 settembre 1990 “in odio alla fede”, per la beatificazione del giovane magistrato è stata scelta la stessa data in cui Giovanni Paolo II – nel 1993 – fece visita alla città siciliana e lanciò la famosa invettiva contro la mafia
Emanuela Campanile – Città del Vaticano
Nello stesso giorno, era il 9 maggio 1993, in cui Giovanni Paolo II pronunciò al termine dell’omelia della messa celebrata nella Valle dei Templi, un duro monito contro la mafia, il giudice Rosario Livatino verrà proclamato beato. L’annuncio è stato diffuso ieri dall’ arcidiocesi siciliana assieme ai particolari sul rito.
A presiedere la celebrazione nella cattedrale del comune siciliano, sarà il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nell’udienza al Consiglio superiore della magistratura, il 17 giugno 2014, Papa Francesco definì Livatino “testimone esemplare, giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana”. Il giovane magistrato morì per mano di quattro killer della Stidda, la mafia agrigentina, lungo la statale che ogni mattina percorreva con la sua utilitaria da Canicattì – dove viveva con i genitori – al tribunale di Agrigento. Aveva rifiutato la scorta sebbene consapevole dei rischi a cui era esposto. Il giudice ragazzino, soprannome con cui è passato alla storia, non voleva che “altri padri di famiglia” dovessero pagare a causa sua: viene ucciso, solo, colpito alle spalle. Il 22 dicembre 2020, Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto che ne riconosce il martirio “in odio alla fede”.
La motivazione che spinse la mafia agrigentina ad eliminare Livatino, si legge nel documento che ha annunciato la decisione del Papa, “fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante”.
fonte: Vatican News
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