Prima la bordata del presidente, il 30 aprile scorso, incalzato dalle domande dei giornalisti; oggi, invece, a rincarare la dose ci ha pensato il segretario di Stato. Insomma, gli Usa, lancia in resta, vanno allo scontro con la Cina, accusandola, direttamente, di aver realizzato in laboratorio il nuovo coronavirus, e di averlo, o casualmente, o con intenzione, diffuso. Diversamente da quanto, fino ad ora, la comunità scientifica internazionale è andata sostenendo, riferendo che il Covid sia un virus naturale. Fatto sta che sia Trump, sia Pompeo, ora parlano di «prove» sull’artificio virale da parte del paese asiatico. “The Donald”, giovedì scorso, aveva detto che «nei laboratori di Wuhan deve essere successo qualcosa di terribile. Può essere stato un errore, qualcosa che si è sviluppato inavvertitamente, oppure qualcuno lo ha fatto di proposito», mentre oggi il capo della diplomazia a stelle e strisce, in un’intervista alla Abc – la storica emittente televisiva americana – ha osservato che «ci sono numerose prove che il virus arrivi dal laboratorio di Wuhan. La Cina ha fatto di tutto per tenerlo nascosto. Classica operazione di disinformazione comunista – ha aggiunto l’esponente dell’amministrazione Usa-, ma ne risponderanno». Per Pompeo, dunque, sono fondati «i sospetti» coltivati negli ultimi mesi. «Abbiamo detto fin dall’inizio che questo virus abbia avuto origine a Wuhan – ha aggiunto – e ci sono prove enormi. Dobbiamo ricordare che la Cina ha una storia di infezioni propagate nel mondo e una storia di laboratori al di sotto degli standard. Questa non è la prima volta che il mondo si trovi esposto a un virus, che è il risultato di errori commessi in un laboratorio cinese». Alla domanda, poi, da parte dell’Abc, se il governo di Pechino abbia voluto nascondere la gravità della pandemia in modo intenzionale, per danneggiare i Paesi occidentali, Pompeo non ha risposto. Ha invece messa in evidenza la mancanza di collaborazione, anche ora che la crisi è mondiale: «Continuano a impedire l’accesso agli occidentali, ai nostri medici migliori», ha detto Pompeo riferendosi ai cinesi. «Ma è necessario che i nostri esperti vadano lì e non abbiamo ancora i campioni di cui abbiamo bisogno», ha concluso il leader americano di origini abruzzesi. Insomma, un attacco frontale alla Cina, che segue quello all’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità, responsabile, secondo Trump, di aver nascoste o minimizzate, sin dalle prime settimane dell’anno, le notizie di cui era già in possesso sul coronavirus. Per il presidente statunitense, l’Oms sarebbe stata reticente, come ha sottolineato nei giorni scorsi – il suo intervento è testimoniato da un video – in quanto, sempre secondo Trump, starebbe ricevendo finanziamenti rilevanti, formalmente da destinare alla ricerca scientifica, ma di fatto elargiti – è il pensiero di Trump – con lo scopo di impedire la rielezione alla Casa Bianca. Dunque, il piano cinese sarebbe quello di far ricadere le responsabilità sul presidente in carica, favorendo, di conseguenza, l’elezione del democratico Biden. Una strategia, ammesso che sia autentica, e che le autorità cinesi negano – come pure negano le ipotesi della creazione in laboratorio del virus – di cui la stampa internazionale, però, non si sta occupando, diversamente da quanto fece in occasione delle attività russe, nella diffusione di notizie – soprattutto attraverso i social – più o meno false, le quali, secondo alcuni, avrebbero favorito l’ascesa di Trump a Washington, quattro anni fa. Tuttavia, la strada per richiedere un risarcimento alla Cina, sembra avviata.
Per esempio, cancellando parte del debito contratto dal Tesoro americano con i concittadini di Xi Jimping. Lo spunto viene dalla proposta avanzata da Marsha Blackburn, senatrice repubblicana del Tennessee: eliminare il rimborso dei titoli in scadenza e – oppure – non versare gli interessi (mediamente pari all’1,2%) sui 1.100 miliardi di Us Bond in possesso dei cinesi. Il senatore repubblicano Tom Cotton, invece, uno degli interlocutori più assidui del presidente, chiede di «sganciare l’economia americana da quella cinese», per legge, imponendo alle multinazionali statunitensi attive in Cina di rientrare. Lindsey Graham, altra sponda al Senato del presidente, preme perché Pechino venga «punita». Tutte posizioni largamente condivise dal partito di Trump, il Repubblicano, soprattutto tra i parlamentari e nella fitta rete di think tank conservatori consultati dai consiglieri del presidente. Uno sprone, in tal senso, arriva anche dall’America profonda. Per esempio, il governatore del Missouri, Mike Parson, ha deciso di citare in giudizio il governo cinese. Farà la stessa cosa il suo omologo del Mississippi, anch’egli repubblicano, Tate Reeves. Si tratta di un passaggio importante e politicamente delicato, poiché si passa dalle «class action», quindi dalle cause promosse da gruppi di privati, a iniziative giudiziarie intraprese da istituzioni americane. Secondo il Washington Post ci sono diverse opzioni allo studio. Tutte sono incardinate sulla necessità di superare l’immunità degli Stati sovrani, in modo da costringere la Cina a rispondere dai danni causati.
Tra l’altro, gli Usa, nel portare la Cina di fronte ad un tribunale internazionale, potrebbero anche non essere soli. Il cancelliere di Germania, infatti, Merkel, ha già chiesto «trasparenza» ai dirigenti del Partito comunista cinese. E se una posizione da parte dell’Ue, appare impossibile, così come accaduto in precedenza anche su altre questioni, sarebbe auspicabile che l’Italia si schierasse, senza indugi, dalla parte degli Stati Uniti, chiamando la Cina a rispondere delle eventuali responsabilità. Per le quali, se accertate, si potrebbe chiedere il conto per il danno ancora incalcolabile – ma non sarebbe da escludere una cifra pari a diverse centinaia di miliardi di euro – che l’Italia ha patito e patirà.
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