Dalla cattura di Messina Denaro ai negoziatori per liberare ostaggi di rapimenti. Parla il comandante del Gruppo di intervento speciale dell’Arma, Giovanni Capone: «Non cerchiamo Rambo né superuomini»
di Vincenzo R. Spagnolo
«Verde zero a Veleno, lo abbiamo identificato, è lui…». Ogni tanto, in qualche breve pausa fra i momenti di estremo impegno del suo lavoro, il comandante dei Carabinieri del Gis Giovanni Capone ripensa agli attimi concitati del 16 gennaio di quest’anno, quando a Palermo i suoi uomini hanno poggiato con decisione le mani sulle braccia di Matteo Messina Denaro, mettendo fine alla trentennale latitanza dell’ultimo boss stragista di cosa nostra: «Dopo le pacche sulle spalle e l’emozione, abbiamo subito pensato a esfiltrarlo rapidamente in un luogo sicuro, tenendolo in custodia fino al trasferimento nel carcere dell’Aquila».
Un’operazione orchestrata con cura insieme agli investigatori del Ros: appostamenti, pedinamenti, sorveglianza fisica e tecnologica. La clinica La Maddalena era “cinturata” dai carabinieri: «Sul posto avevamo oltre cento operatori. Certo, in quei 40 minuti di ricerca siamo stati in tensione e in attesa della conferma, ma contavamo che il paziente Andrea Bonafede, come si faceva chiamare, non avrebbe potuto allontanarsi non visto. Certo, c’erano incognite: se avesse avuto una scorta di persone armate, se avesse opposto resistenza in un contesto affollato di pazienti… Non è avvenuto, ma ne avevamo tenuto conto», racconta ancora il colonnello, che da due anni è al comando delle teste di cuoio che compongono l’inossidabile “Gruppo di intervento speciale” dei Carabinieri. Salentino, 47enne, una vita nell’Arma («Sono entrato al Collegio della Nunziatella da ragazzo, poi l’Accademia e tutto il resto»), Capone non è uomo da riflettori, come tutti i Gis.
E questa rara intervista – concessa ad Avvenire in vista delle cerimonie per il 209esimo anniversario della fondazione dell’Arma (che si celebra domani, 5 giugno, a Roma e nel resto d’Italia) – diventa l’occasione per conoscere “dal di dentro” i compiti che lui e i suoi uomini svolgono ogni giorno, in silenzio e senza clamori, al servizio della sicurezza del Paese. E in 45 anni di esistenza, scorrere l’elenco delle missioni portate a segno dal Gis equivale a ripercorrere una parte della storia del Paese: dal blitz nel 1980 nel supercarcere di Trani, per sedare una rivolta; alle catture di superboss di ‘ndrangheta come Strangio o Barbaro, nella stagione dei sequestri di persona in Aspromonte, o come il sanguinario camorrista Giuseppe Setola, preso nel 2009, fino a Messina Denaro, appunto.
Il numero dei Gis, per ragioni di sicurezza, non viene reso noto, ma sono «fra le 100 e le 200 unità», assicura il colonnello. In caserma, nel Livornese, c’è un’aliquota di personale sempre pronta («entro mezz’ora») all’impiego, una seconda in 3 ore e l’intero reparto entro 24. Alcuni elicotteri Augusta e un aereo dell’Aeronautica Militare attendono a Pisa, se si deve volare lontano. Nel frattempo, sul posto dell’emergenza sono già arrivate «le Api e le Sos, aliquote di primo intervento e squadre di supporto, 36 in tutta Italia, in grado di mettere in sicurezza il perimetro dove sta accadendo l’evento e intervenire, se le cose precipitano».
A leggere negli occhi degli operatori, nella striscia di volto libera dal passamontagna mephisto, si intravedono calma e determinazione. «Il nostro motto, in latino, è in singuli virtute aciei vis, dal valore del singolo trae la forza il gruppo» considera il comandante Capone, «non cerchiamo i Rambo, i superuomini o gli individualisti, ma persone che sappiano mettersi al servizio di un gruppo, di un comune e superiore interesse. Né riteniamo di essere super carabinieri, solo elementi con abilità particolari che l’addestramento può affinare. Ma gli alamari che portiamo “cuciti sulla pelle” sono gli stessi di ogni carabiniere».
La selezione per entrare è inevitabilmente rigorosa: gli aspiranti Gis, al massimo 32enni, vengono da almeno due anni di servizio nel “Tuscania” e debbono superare test fisici e psicologici, per poi passare all’addestramento vero e proprio, che include tecniche di combattimento ravvicinato e autodifesa, tiro di precisione, esplosivi, arrampicata e altro ancora. Nella base dove si addestrano, non si vede alcun soldato Jane, ma non per machismo: «Ancora non abbiamo nei ranghi nessuna donna – ragiona il colonnello – perché non ce ne sono nel primo reggimento paracadutisti del Tuscania da cui provengono gli aspiranti. Ma ritengo che sia solo una questione di tempo».
Tuttavia di donne (mogli, fidanzate, madri, sorelle, figlie) che condividono la vita dei Gis, ce ne sono: «Senza l’affetto e la comprensione delle nostre famiglie, sarebbe durissima – confida Capone -. Al netto del riserbo sui dettagli militari, conoscono i nostri sacrifici e ci sostengono». Non sono frasi fatte. Perché si può essere chiamati per una missione in ogni attimo della giornata, «anche mentre ceniamo, dormiamo o facciamo la spesa con moglie e figli». Una carezza, due baci e si va, confidando di tornare presto a riabbracciare i propri cari.
Fonte: Avvenire
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