La capitale è l’unica grande città europea che non ha ancora trovato una soluzione organica per i “transitanti”, fra 300 e 500 persone al giorno che puntano a proseguire il viaggio verso l’estero e sono fuori dal circuito di assistenza ai richiedenti asilo. Se ne fa carico il movimento spontaneo Baobab, che in questi anni ne ha presi in carico decine di migliaia. L’ultimo intervento della polizia in via Cupa, nell’era Tronca, ha tolto un tetto agli ospiti, creando tensioni con il quartiere. Ora dalla giunta Raggi arriva una possibile soluzione
INCHIESTA SULL’ACCOGLIENZA/3. “Mi scusi, dove sono finita?”. Una donna si avvicina intimorita alla prima persona con la pelle bianca che incontra. Ha sbagliato uscita, “è la prima volta che scendo a Tiburtina, che cos’è qui?”. Piazzale Spadolini, uno slargo buio alle spalle della seconda stazione più grande di Roma, dove passano poche linee dell’autobus e nessuna automobile. Tende, sacchi a pelo, buste di plastica con cibo caldo portato da casa dai volontari, un camper per l’assistenza medica e un centinaio di giovani uomini e donne infreddoliti. È tutto ciò che resta della Baobab Experience, un movimento spontaneo di cittadini che si occupa di assistere i migranti di passaggio, i cosiddetti “transitanti”, quelli che non vogliono fermarsi in Italia e sono fuori dal circuito Sprar (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dell’accoglienza ufficiale. Sono tutti potenziali rifugiati, in fuga da guerre e dittature, ma anche solo alla ricerca di una vita migliore, che, stando al regolamento di Dublino dovrebbero rimanere nel primo paese dell’Unione Europea in cui mettono piede.
Alcuni hanno fatto richiesta di asilo ma non hanno ancora ricevuto risposta, altri sono in attesa di aderire al programma “Relocation”, il piano europeo di redistribuzione dei migranti tra stati membri, altri ancora vorrebbero sfuggirvi e raggiungere la città inglese o tedesca in cui c’è un amico, un contatto che li aspetta. Ma, nel frattempo, da qualche parte devono pur stare. Roma è l’unica grande città europea che non ha ancora trovato una soluzione organica a un fenomeno relativamente piccolo, che diventa un problema solo se gestito male. Ogni giorno nella capitale transitano trecento, massimo cinquecento, migranti di passaggio. Persone che mangiano, dormono e vanno al bagno in ogni caso. Senza un luogo deputato ad accoglierle, lo fanno per strada, intorno alla stazione, sotto gli occhi di pendolari e cittadini.
L’aumento dei flussi migratori dal Nord Africa e la conseguente chiusura delle frontiere del Nord Europa ha ingrossato le fila di questo limbo. Baobab era stato tuttavia capace di rispondere all’emergenza. I volontari accoglievano questo nuovo flusso di migranti in una struttura autogestita da circa dieci anni, nel palazzo di una vecchia vetreria abbandonata, in via Cupa, 5, una stradina vicino alla stazione Tiburtina. “In questo periodo” racconta Francesca Del Giudice, una volontaria, “c’era di solito un numero molto esiguo di migranti, richiedenti asilo o in attesa dell’asilo. Erano eritrei, somali, sudanesi, etiopi. Ora sono perlopiù del Maghreb. Nel 2015 abbiamo accolto 30mila migranti, per il 2016 ne stimiamo almeno il doppio”. Solo che, da un anno, l’accoglienza non avviene più sotto un tetto. Gli stabili in via Cupa sono stati sgomberati dall’ex commissario cittadino Francesco Paola Tronca il 6 dicembre 2015, “per restituirli ai legittimi proprietari”. Un anno dopo le palazzine sono ancora abbandonate.
I volontari di Baobab hanno continuato a offrire un pasto caldo, un materasso e assistenza medica in un “campo informale”, improvvisato nella stretta via da cui si accede alle palazzine, fino al 30 settembre 2016 quando, dopo una decina di sgomberi parziali, è stato smantellato definitivamente. In questa occasione, racconta Francesca, “l’Ama e le forze dell’ordine hanno sequestrato tutti i beni dei migranti, molti dei quali sono partiti senza le uniche cose che li legano alla loro terra, una foto, un documento, un amuleto”. I volontari hanno potuto recuperare gli oggetti solo un mese dopo. “E sappiamo bene che essendo transitanti, la maggior parte di loro nel frattempo è partita senza nulla”. Da ottobre 2016 i volontari si arrangiano quindi nello spiazzo alle spalle di Tiburtina, lontanissimi dall’idea contenuta in un progetto presentato da Baobab e altre associazioni al Comune e poi in Regione, “creare una cittadella dell’accoglienza”. L’aumento del flusso dei migranti ha snaturato la loro missione, “facciamo accoglienza, non assistenzialismo” tengono a precisare, ma diventa sempre più difficile. Perché sono troppi, perché non c’è una struttura ricettiva pubblica, perché quelle abusive sono puntualmente sgomberate.
Con il freddo, la situazione a piazzale Spadolini si è aggravata e la pressione sull’amministrazione capitolina si è fatta più forte. A novembre c’è stato un importante faccia a faccia tra i rappresentanti delle associazioni di volontariato e Laura Baldassarre, l’assessore alle politiche sociali della Giunta Raggi. “Abbiamo raggiunto un obiettivo minimo, adesso ci aspettiamo un’accoglienza dignitosa”, commenta Francesca. L’amministrazione ha previsto l’immediato trasferimento di 92 ospiti al centro della Croce Rossa in via del Frantoio. Alla Tiburtina invece resteranno attivi i presidi di Baobab e Medu (un’associazione di medici volontari), che faranno da infopoint per i migranti transitanti. L’intenzione dichiarata dell’amministrazione Raggi sembra andare incontro alle richieste che le associazioni avanzano da due anni, l’apertura di un hub dedicato a queste figure che sono fuori dal circuito dell’accoglienza istituzionale. Ma tutto è ancora in divenire.
“Via Cupa uguale anarchia” recitava un cartello esposto da una palazzina di fronte al campo informale, quando Baobab è stato costretto a organizzarsi per strada. L’assenza di un luogo chiuso, circoscritto, in cui accogliere i “transitanti” ha provocato le inevitabili proteste di chi abita nei dintorni della stazione Tiburtina. Alcuni fanno parte del comitato locale “Beltramelli-Meda-Portonaccio” e lamentano la situazione insostenibile dei parcheggi divenuti dormitori, ma le proteste dei romani restano contenute. A detta degli stessi volontari, il numero dei migranti accampati per strada, dopo la chiusura della sede in via Cupa, era tale da rappresentare oggettivamente un disagio per i residenti e i passanti.
Il disagio è stato cavalcato da un esponente locale della Lega Nord-Noi con Salvini, Andrea Liburdi, consigliere del II municipio. “Quando abbiamo chiuso la strada perché gli ospiti erano troppi, ha scatenato il putiferio” raccontano i volontari. “La strada è nostra, le nostre attività in bancarotta, ci stiamo trasferendo tutti” era l’accusa. A luglio, con le telecamere al seguito, si è presentata al campo anche la deputata Barbara Saltamartini per esprimere e documentare tutto il suo “schifo”. Ne ha ricavato fischi e insulti e alcuni migranti le hanno offerto una banana facendo il verso delle scimmie, per rispondere alla provocazione.
Ogni ospite del Baobab ha una storia da raccontare a cui, d’istinto, ci si rifiuta di credere. Alcune hanno un lieto fine. “Un ragazzo eritreo è rimasto con noi un mese, cosa insolita per i transitanti,” ricorda Francesca, “Abraham non aveva soldi, aspettava un suo amico a Roma per partire insieme, aveva il sogno di arrivare in Inghilterra. Scappava da una condizione di estrema povertà e dittatura ma era laureato, un ingegnere, parlava un inglese perfetto. Dopo Ferragosto è andato a Calais dove è iniziata la sua avventura per raggiungere l’Inghilterra. Ci è arrivato a fine febbraio. Ogni mattina si svegliava da Calais provava ad attraversare la Manica, ogni giorno, per sei mesi. Poi ce l’ha fatta, nascosto su un treno merci, e adesso lavora e ha un famiglia, ha realizzato un sogno. Una delle storie più belle e incredibili che ho avuto l’onore di conoscere e vivere. Dopo un mese era diventato uno dei nostri volontari di fatto, ci sentiamo ancora”.
In questi due anni al Baobab hanno cercato di offrire più di un pasto caldo e una tenda, coinvolgendo gli ospiti in attività ricreative, partite di calcio, tour guidati ai Fori Imperiali. “Sono tutti piccoli casi che per noi sono molto importanti, forse i più importanti in assoluto, perché andiamo oltre il mero assistenzialismo”. E i migranti lo sanno, se lo raccontano con il passaparola, cercano i volontari di Baobab perché offrono più che un pezzo di pane. Fanno rete con il Sud e il Nord Italia. Li proteggono da una doppia tenaglia, quella delle istituzioni europee che non li riconoscono e li respingono e quella dei trafficanti specializzati in lavoro nero e prostituzione, che li seducono con un’offerta comunque migliore, un tetto e un materasso. Ed è chiaro, soprattutto se sprovvisti di una struttura di accoglienza, spiega Francesca, “che davanti ai trafficanti possiamo fare ben poco. Sono circuiti talmente tanto dentro la loro realtà che non potremmo mai in ogni caso sapere fino in fondo”.
Insieme alla fame, alla scomodità e alla condizione alienante di immobilità, spesso i “transitanti” devono fare i conti anche con le malattie. “In passato ci sono stati tanti casi di scabbia, dovute alle pessime condizioni in cui sono costretti a vivere. Con il calo delle temperature la scabbia diminuisce ma aumentano le patologie legate al freddo” spiega Anita Carriero, coordinatrice dell’unità mobile di Medici per i Diritti Umani, che il martedì e il giovedì raggiunge il presidio della Tiburtina. “La prima urgenza è avere una struttura dove ospitarli e curarli, le temperature si abbassano e la gente resta al freddo, per strada. A questo punto speriamo che non ci scappi il morto”. Sarebbe la beffa estrema per chi ha già attraversato ogni tipo di pericolo. Medu cerca infatti di raccogliere in un archivio le memorie dei maltrattamenti subiti dai migranti durante i lunghissimi viaggi verso l’Europa, “moltissimi hanno subito violenze, soprattutto in Libia nei centri di detenzione dove vengono portati dagli stessi trafficanti. Stiamo parlando sia di violenze fisiche sia di disturbi sul piano psichico. Brutalmente noi diciamo che mettiamo le toppe, perché il lavoro di Medu non è di tipo assistenzialista, ma vista la situazione ci ritroviamo a svolgere assistenza sanitaria”.
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